Tratta dalla nuova edizione di Comunicare la Cultura, oggi di Andrea Maulini
Lo scorso 7 luglio è uscita la seconda edizione di Comunicare la cultura, oggi di Andrea Maulini, la versione aggiornata e arricchita di integrazioni, correzioni e aggiornamenti del manuale di marketing e comunicazione, con focus sul settore culturale, pubblicato nel 2019.
Tra le principali novità, vi sono le interviste fatte a personalità rilevanti e autorevoli a chiusura di ciascun capitolo del libro. In questo articolo vogliamo condividere quella a Giovanni Soresi che, vantando un’esperienza di oltre quarant’anni al Piccolo Teatro di Milano, ha creato il Settore marketing e comunicazione, diventandone direttore. Ha inoltre collaborato, tra gli altri, con l’Union des Théâtres de l’Europe a Parigi, il Teatro Lliure a Barcellona, il Touring Club Italiano.
Qui di seguito l’intervista integrale.
Che cosa ha voluto dire, per te, iniziare la tua esperienza lavorativa al Piccolo Teatro?
Ha voluto dire lavorare, da subito, con due geni: Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Strehler è stato un innovatore e un pioniere per la parte artistica, Grassi è stato l’inventore dell’organizzazione e promozione teatrale. E da subito sono stato educato a lavorare tenendo ben presente il concetto di “Teatro d’Arte per Tutti”, la visione programmatica e poetica alla base della fondazione del Piccolo. Un’affermazione, se ci si pensa, molto impegnativa: per chi programma e mette in scena spettacoli che vogliono essere “arte”, ma anche per chi deve promuovere questi spettacoli a tutti, senza distinzione. Non a caso, Paolo Grassi definiva il teatro un servizio pubblico, “come la scuola o i vigili del fuoco”, per citare le sue parole, quindi prima di tutto un servizio per la collettività.
E questo cosa ha comportato dal punto di vista delle politiche di promozione del pubblico?
Un approccio fortemente pragmatico e appassionato: Paolo Grassi mi ha insegnato a conoscere da vicino il pubblico, incontrarlo, prepararlo a venire a teatro e, soprattutto, a farlo ritornare. E quindi, da subito, anche ad attivare la raccolta di informazioni e contatti degli spettatori, costruendo il primo prototipo di indirizzario e di quello che sarebbe poi diventato un database.
Un approccio a tutti gli effetti di marketing, anche se in Italia si era ancora ben lontani dal parlarne, anche in molte aziende, non solo nella cultura.
Quali sono stati i passi successivi?
Nel 1972 Paolo Grassi andò via dal Piccolo Teatro, per approdare prima in Scala e poi in RAI. Lasciando una metodologia di lavoro che ci ha consentito di continuare a crescere e di sviluppare in maniera progressiva una politica strutturata di “promozione del pubblico”, o di marketing propriamente detto.
Quelli sono anni in cui, peraltro, io e altri miei colleghi frequentiamo, sostenuti dallo stesso Strehler, i corsi estivi di teatro e marketing della cultura organizzati dalla Columbia University di New York, entrando in contatto con una realtà, quella anglosassone, già all’epoca molto più avanti di noi in questo campo. Per esempio, lì erano attivi da tempo gli “half price ticket”, i biglietti last minute per gli spettacoli in programma in tutti i teatri il giorno stesso, venduti a metà prezzo al TKTS a Times Square. O si parlava già di piano di comunicazione, di segmentazione, sondaggi, gestione del budget.
Ho iniziato quindi a mettere in atto i primi passi per la costruzione di un sistema di marketing completo. Cominciando, come mi aveva insegnato Paolo Grassi, proprio dalla conoscenza del pubblico.
E, quindi, dalla sistematizzazione della raccolta e della catalogazione degli indirizzi e dei contatti anagrafici, una risorsa fondamentale per costruire qualunque strategia di marketing. Partendo dai nominativi degli spettatori e degli abbonati, integrati da chi compilava un modulo di richiesta informazioni disponibile in biglietteria e all’ingresso del teatro, abbiamo creato un primo database. Era infatti costituito da grandi classificatori che contenevano molte schede, una per ciascun nominativo.
Con un sistema di catalogazione artigianale ma indubbiamente efficace: ogni scheda aveva due buchi. Uno indicava se il nominativo era di Milano o di fuori Milano, l’altro se era abbonato o non abbonato. Una barra consentiva di estrarre i nominativi catalogati, appunto, per residenza e per tipo di acquisto. E quindi di costruire già dei primi “segmenti”, utili per l’invio differenziato delle informazioni e delle promozioni per gli spettacoli e le altre iniziative.
Ovviamente, quando cominciarono a uscire sul mercato i primi computer, questi attirarono da subito il mio interesse: la rivoluzione fu un Macintosh 512, il secondo modello prodotto da Apple, che avevo comprato direttamente negli Stati Uniti (con i soldi personali miei e di Strehler). Col Mac potevo finalmente lavorare a un vero database del pubblico, prima Lotus 1-2-3, poi Filemaker e qualche anno più tardi la prima biglietteria elettronica con scheda cliente.
Cosa è successo dopo?
Progressivamente, abbiamo cominciato a introdurre altri elementi. Lavorare sul brand, il Piccolo era un marchio fortissimo ma andava continuamente aggiornato, e anche lavorare sull’immagine: il teatro, dal punto di vista del marketing, non è un prodotto materiale, ma un servizio (nel nostro caso, come detto precedentemente, un servizio pubblico). E, proprio per questo, è un’esperienza che deve essere ricordata nel tempo e condivisa il più possibile. L’immagine, quindi, è fondamentale da un punto di vista iconografico, e al Piccolo progressivamente abbiamo costituito proprio un settore interno dedicato alla grafica coordinata e alla fotografia, con Emilio Fioravanti, un grande grafico, e Luigi Ciminaghi, il fotografo che con il suo stile inconfondibile ha ripreso praticamente tutte le produzioni del Piccolo fino agli anni Novanta, creando delle immagini che sono rimaste nella storia del teatro italiano, come il famoso “salto” di Arlecchino servitore di due padroni, lo spettacolo-manifesto del Piccolo Teatro.
Un altro campo su cui ci siamo mossi da subito è stato quello del monitoraggio delle vendite e delle azioni di promozione e comunicazione. Prima si faceva solo un elenco degli incassi serali. Ma presto ho capito che la cosa più importante erano i flussi del pubblico e degli incassi, incrociando questi andamenti con le azioni di comunicazione e il budget relativo: così da capire quali azioni funzionassero e quali meno e costruire un piano di comunicazione sempre più efficace.
Poi, più avanti, si è cominciato a lavorare sulle altre leve di marketing: le formule di abbonamento, i prezzi, i canali di distribuzione. Ma il momento di passaggio più importante, quello che ci ha consentito di operare in una completa ottica di marketing e di crescere in maniera definitiva, è stato nel 1993 Quartetto.
Un nuovo tipo di abbonamento, che ha costituito in qualche modo una rivoluzione nel mondo del teatro italiano. Ci puoi spiegare meglio?
La stagione 1992/93 ha rappresentato, per il Piccolo, un momento di svolta. Le vendite degli abbonamenti infatti erano passate, in pochi anni, da circa 15.000 a poco più di 2.000. Questo, oltre ad altri segnali di crisi, ci ha fatto capire che occorreva rivedere completamente la nostra proposta di abbonamenti e, in generale, l’approccio al pubblico.
È stata quindi avviata un’ampia ricerca di mercato, curata da un grande professionista, Antonio Valente, che, con questionari, interviste personali e interviste telefoniche ha avuto l’obiettivo di studiare la profilazione e i comportamenti del pubblico, in particolare degli abbonati ed ex abbonati. L’indagine sul pubblico, peraltro, è un percorso che io consiglio sempre di seguire, se possibile in maniera continuativa. Con Quartetto abbiamo iniziato infatti un percorso di ricerche sul pubblico, anche qualitative, che per il Piccolo ha rappresentato un importante patrimonio di conoscenze che si è arricchito nel tempo.
Per riprendere il discorso, dalla ricerca del 1993 emergevano, tra l’altro, molte critiche agli abbonamenti: troppi spettacoli, troppi vincoli, prezzi alti e una programmazione concentrata in pochi mesi.
Per questo abbiamo deciso di lanciare un nuovo prodotto, la Quartetto Card, costruito secondo una piena logica di marketing. A partire dal nome, che conteneva la parola “Card”, per distinguerla subito da un abbonamento “tradizionale”. E poi, il periodo: a fine campagna abbonamenti tradizionali, per dare una continuità, in modo da promuovere Quartetto anche come regalo natalizio e anche a primavera, riproponendolo poi nella nuova Stagione. Oltre, naturalmente, alla formula, che invece dei 13 o più spettacoli proposti dagli abbonamenti in uso all’epoca ne proponeva solo 4.
Altra leva di marketing: il prezzo era fissato a 100.000 lire, senza riduzioni o promozioni. Un tagliando più alto rispetto agli altri abbonamenti, corrispondente all’alto valore degli spettacoli proposti, e un prezzo, 100.000 lire appunto, facile da comunicare e invitante.
Poi, la comunicazione: un forte supporto di mezzi tradizionali, con affissioni, volantini, pubblicità sui giornali ma anche una consistente campagna di mailing e telemarketing, con migliaia di lettere inviate a ex abbonati e a clienti potenziali supportate da follow up telefonici, per promuovere l’abbonamento ma anche avere feedback diretti sull’attività in corso.
Infine, la distribuzione: oltre che nelle biglietterie, Quartetto è stato venduto in università, biblioteche e anche presso uno stand al piano regali de La Rinascente, il più famoso grande magazzino di Milano.
I risultati sono stati notevoli: da solo, Quartetto ha venduto praticamente come tutti gli altri abbonamenti nel loro insieme, e alla fine della Stagione gli abbonamenti totali erano più del doppio rispetto all’anno precedente. Da questa esperienza è partito un nuovo approccio del Piccolo che ha consentito, tra l’altro, di raggiungere in pochi anni la quota di 25.000 abbonamenti venduti, ma anche di costruire in generale una politica di marketing che ha portato ottimi risultati.
Dal tuo punto di vista, come vedi oggi la situazione del marketing nel teatro e, più in generale, nella cultura?
Per rispondere partirei ancora da Paolo Grassi, il quale diceva che un teatro è costituito per metà dal palcoscenico e per metà dalla sala: il palcoscenico spesso è grande come la sala, se non di più.
A mio parere, quindi, la vision e la mission di un teatro, ma in generale anche di un ente culturale, non possono prescindere dalla parte artistica. È l’artista, il direttore artistico, il regista ad aprire la strada, a indicare la via da perseguire. Le altre attività, e tra queste ancora di più il marketing, devono seguire questa via, lavorare al meglio seguendo queste linee.
Il teatro e la cultura, dal punto di vista di marketing sono un servizio: non li puoi comprare come un prodotto, non te li porti fisicamente a casa. Quello che compri è il biglietto, l’abbonamento o anche la tessera fedeltà; ciò che ti porti a casa è un’esperienza, da ricordare e, se possibile, da rinnovare. Per questo, bisogna costruire con il pubblico, da subito, una relazione: occorre dare la massima accessibilità alle cose che facciamo, da tutti i punti di vista. E, quindi, conoscere il pubblico, parlargli, costruire un rapporto con lui: partire dalle cose che hanno insegnato Paolo Grassi e Giorgio Strehler, ancora assolutamente valide, anche oggi.
La leva della comunicazione, per il settore culturale, è fondamentale, ma la comunicazione non è solo pubblicità. Occorre ascoltare, proporre, interagire, capire se quello che stiamo facendo va nella direzione giusta e quali miglioramenti possiamo mettere in atto. I canali ci sono: il web, i social, l’e-mail, ma anche il contatto personale, importantissimo nel settore culturale… sono tutti mezzi di relazione, che devono essere usati pienamente, non solo in maniera episodica, come succede ancora troppo spesso.
Il pubblico è cambiato, in questi anni, molto. Ma indagini e ricerche di mercato, tantomeno a livello nazionale, non se ne fanno da anni. Rappresentano, invece, uno strumento fondamentale per conoscere e capire chi ci segue e come progettare le nostre azioni di marketing.
E, quindi, come vedi il futuro?
A mio parere il teatro e la cultura continuano a essere strumenti fondamentali di formazione e partecipazione. Anche questa preoccupazione relativa all’online, allo streaming, a Netflix e agli altri servizi di questo tipo mi sembra assolutamente infondata. Teniamo conto, ad esempio, che molte serie Netflix sono legate al mondo del teatro e proprio per questo a mio parere avvicinano nuovo pubblico, non lo allontanano di certo. E avvicinano anche i giovani, che troppo spesso contattiamo in maniera ancora episodica e one off, senza coltivare con loro una relazione, una parola fondamentale, oggi e ancora di più in futuro.
Per gentile concessione di Editrice Bibliografica